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L’odissea bellica dell’artigliere Raffaele Machiné: da prigioniero di guerra in Egitto a superstite del tragico affondamento del piroscafo Laconia

di Vincenzo Marasco, Centro Studi Storici “Nicolò d’Alagno”

Artigliere Raffaele Machiné (classe 1920)

Disperso/Prigioniero

Divisione corazzata “Littorio”, 3° Reggimento Artiglieria Celere “Principe Amedeo Duca d’Aosta” – Articelere, 4° Gruppo, 10ª Batteria

Africa Settentrionale, Egitto, Tell el Eisa, luglio 1942

Egitto, Geneifa – Campo 306, P.O.W. matr. 341438

In trasferimento verso l’Inghilterra a bordo del piroscafo Laconia


Tra le tante vicende dei soldati arruolati dalla Circoscrizione fascista di Torre Annunziata, inviati a combattere sui vari fronti della Secondo Conflitto Mondiale, alcune presentano delle particolarità così complicate che risulta doveroso doverle approfondire e chiedersi come questi “ragazzi” abbiano potuto sopportare – lì dove sono sopravvissuti – e riprendersi poi la loro normalmente vita col rientro in patria.

La storia di Raffaele Machiné è una di quelle che segna profondamente, ma nel contempo ci offre un modo di poter quantificare il coraggio e l’ostinata reazione che tanti altri soldati come lui ebbero nel tentativo estremo di sopravvivere a determinate vicende.

Raffaele Machiné è nato a Torre Annunziata il 20 settembre del 1920 da Emilio e Boccia Anna residenti al civico 61 di Via Cavour.

La famiglia Machiné per la causa espansionistica fascista si ritrovò ad offrire un grande tributo: sia Raffaele che il fratello maggiore Ciro della classe 1918, nel 1940 vennero arruolati e addestrati per essere poi inviati entrambi a combattere tra le fila dei reparti di artiglieria dell’esercito schierati in Africa Settentrionale lì dove Raffaele venne inquadrato nelle fila del 3° Reggimento Artiglieria Celere “Principe Amedeo Duca d’Aosta” (P.A.D.A.), 4° Gruppo – 10ª Batteria, reparto tradizionalmente noto con l’appellativo di “Voloire” o anche col codice telegrafico di “Articelere”.

Distintivo del 3° Reggimento Artiglieria Celere “Principe Amedeo Duca d’Aosta”

C’è da dire che dal momento in cui Egli salpò verso il Nord Africa ebbe inizio la sua lunga e tormentata avventura.

Insieme agli altri componenti del suo reparto, nel febbraio 1941, riescono nella terribile e quanto mai rischiosa traversata del Canale di Sicilia. Sbarcato a Tripoli, in Libia, dopo un periodo di attività di presidio in Tripolitania, a partire dal febbraio 1942 il reggimento entra in forza negli schieramenti della 133ª Divisione corazzata “Littorio” inviata in Africa Settentrionale per rimpinguare gli schieramenti del riformato XX Corpo d’Armata Italiano: grande unità dell’Esercito Italiano facente parte dell’Armata corazzata Italo-Tedesca del generale Erwin Rommel. La 133ª nel suo impiego affiancherà la 132ª Divisione corazzata Ariete che già da tempo era impegnato nelle estenuanti azioni di avanzata dalla Libia verso l’Egitto, contrapponendosi alle forze dell’VIII Armata Britannica comandata dal generale Claude Auchinleck.

A giugno i reparti italiani cominciarono una decisa avanzata in territorio egiziano e nonostante fossero logorati dalla costante controffensiva inglese e dagli incessanti combattimenti che ne susseguirono, il 27 giugno gli italiani riuscirono ad attestarsi a Marsa Matruh, località non molto lontana dalla più organizzata linea difensiva dei reparti inglesi di El Alamein, lì dove le truppe di Auchinleck avevano stabilito un solido caposaldo.

Riorganizzate le posizioni e le forze in campo il 1° Luglio Rommel diede l’ordine di assaltare le postazioni di El Alamein, aprendo così la prima grande battaglia per la conquista del Nord Africa.

Dopo una giornata di aspri combattimenti e di difficoltà, questo anche a causa delle notizie poco accurate sulle posizioni nemiche, solo la Divisione “Littorio” dove era in forza Raffaele con il suo reparto di artiglieria, riuscì a raggiungere in tempo il suo primo obiettivo fissato su “Quota 115”, nelle vicinanze di El Alamein riportando il ferimento del suo comandante Ceirana-Mayneri che tuttavia non volle essere sostituito.

 Nonostante il fuoco e gli incessanti bombardamenti nemici subiti durante il giorno successivo alla conquista di quell’importante obiettivo, la Littorio appoggiata dall’Ariete riescono a mantenere con tenacia e coraggio la posizione, tentando addirittura l’avanzata verso la depressione di El Qattara, fino a quando vennero pesantemente contrattaccate dalle truppe sudafricane che causarono perdite ingenti di materiali e la cattura di oltre 300 soldati dalle fila dell’Ariete.

Dopo un’altra settimana di manovre incessanti, il 10 luglio gli inglesi passarono ad un decisivo contrattacco rompendo le linee italiane a Tell el Eisa, travolgendo i reparti e facendo oltre un migliaio di prigionieri. Fra prigionieri c’era anche Raffaele, che nel caos del momento venne fatto passare nei comunicati ufficiali ai vertici e in patria come “disperso in combattimento”.

Raffaele Machiné, in piedi, in posa con un suo commilitone

La prima comunicazione della Regia Prefettura di Napoli riguardante la presunta irreperibilità di Raffaele Machiné, arrivò all’ufficio del podestà di Torre Annunziata per poi essere girata alla famiglia il 5 settembre del 1942, messaggio che poi verrà presto smentito da Raffaele stesso con una lettera scritta il 22 luglio e arrivata a Torre Annunziata l’8 settembre, tramite la quale tenta di mettere al corrente i familiari del suo “buono stato” di salute e del suo avvenuto internamento in Egitto, nel campo di prigionia inglese di Geneifa1, meglio noto come “Campo n° 306”. Tentativo che purtroppo non avrà l’esito sperato, almeno non in modo diretto con i suoi familiari, in quanto la lettera non verrà mai recapitata al destinatario mentre i familiari saranno poi informati sullo status di prigioniero di Raffaele con una comunicazione ufficiale del podestà torrese inoltratagli il 10 settembre: i genitori a questo punto accettando il male minore, dovettero tirare un bel sospiro di sollievo in quanto anche l’altro figlio, Ciro già da tempo risultava essere prigioniero sempre in mani inglesi, internato in Sudafrica.

La lettera di Raffaele inoltrata ai familiari e mai recapitata, e che di seguito si riporta la trascrizione integrale, trattenuta dalla censura è rimasta celata  per ben 78 anni fino a  quando poi, nel 2000 è stata ritrovata durante le nostre indagini della documentazione inesplorata fino a quel momento dell’ “Archivio del Potestà di Torre Annunziata”:

«22-7-942. Carissimi genitori.

Come vedete il caso ha voluto che io rimasi prigioniero di conseguenza vi scrivo da questo campo di concentramento ove vi assicuro dell’ottimo trattamento e non solo questo ma anche vi assicuro del mia ottima salute, quindi non preoccupatevi se le mie notizie non vi giungono troppo spesso, sappiate solamente che stò molto bene. Altro non ho che dirvi, solo vorrei che voi scriveste alla mia fidanzata facendoci sapere della mia prigionia e del mio ottimo stato di salute, insomma vorrei, sia essa che voi tutti, non pensiate a male di me, mi trattano molto bene e non ho nulla da lamentarmi. Quando scrivete a Ciro informatelo e ditegli che lo penso sempre. Voi scrivetemi spesso e informatemi di come vanno le faccende di casa, insomma siatemi vicino, con i vostri scritti e questo per me il più bel conforto che voi possiate darmi, questo perché, voi siete per me le persone più care, più ch’io voglio bene. Abbiate sempre fede, che senz’altro verrà il giorno in cui ancora vicini, potremo essere tanto felici. Quindi vi raccomando siate sereni e tranquilli. Se vi chiedono di me informateli e salutateli tanto per me. Vi bacio tanto vostro Raffaele.

Questo è l’indirizzo della mia fidanzata. Signorina Agnese Farina, via per Crema Cardano al Campo, Varese.

Cara Mamma ringraziate tanto questa famiglia perché mi ha sempre (voluto, nda) tanto bene che mi hanno trattato come un figlio di nuovo vi bacio. Raffaele.»

La lettera di Raffaele Machiné censurata dall’Ufficio del Podestà di Torre Annunziata, spedita alla famiglia l’11 luglio 1942 dal Campo di concentramento egiziano “Camp 306”. Fonte: Archivio Storico Uff. Anagrafe Torre Annunziata – Sez. Leva. Foto di V. Marasco.

Alla fine di Luglio, come da prassi dopo il periodo utile alla registrazione dei prigionieri, Raffaele Machiné da Port Tewfik, una piccola località portuale nei pressi di Suez, insieme ad altri 1800 prigionieri di guerra italiani vennero stipati a bordo del Laconia, un vecchio transatlantico della Cunard White Star Line, per essere trasferiti in Gran Bretagna. A bordo del piroscafo oltre agli italiani e i 463 uomini di equipaggio, si ritrovarono anche 286 militari inglesi, 103 guardie polacche che dovevano garantire la sicurezza del viaggio e 80 tra donne e bambini, e siccome il Mediterraneo era considerato una trappola per tutto il naviglio in transito, al Laconia venne imposta la lunghissima rotta meridionale e il periplo del continente africano.

Dopo quasi un mese di navigazione aggirata Città del Capo, il Laconia con il suo carico umano stremato dal lungo viaggio in mare e dalle condizioni a bordo soprattutto quelle riservate agli italiani i quali durante le ore notturne venivano rinchiusi nelle stive mentre di giorno sorvegliati e a turno gli era concesso di stare sui ponti scoperti, invece di tenere la rotta non lontana dalle coste africane, cominciò a spingersi in pieno Oceano Atlantico puntando verso l’isola di St. Helena prima e poi verso l’Isola dell’Ascensione, sperando di poter sfuggire all’opera cinica e di gran successo degli U-Boot tedeschi. Tuttavia si pensò anche che questa rotta intrapresa dal transatlantico era stata dovuta ad un inatteso cambio di destinazione verso gli Stati Uniti.

Il piroscafo Laconia in una cartolina fotolitografica degli anni ‘30. Foto fonte web

Dopo giorni di navigazione apparentemente tranquilla, la notte del 12 settembre si compie il tragico destino del transatlantico e dei suoi trasportati.

Navigando a luci spente e a zigzag, come prevedevano le norme di navigazione notturna di sicurezza per non essere intercettati dai sommergibili nemici, alle 20:10 a circa 130 miglia a NNE dall’Isola dell’Ascensione il Laconia venne agganciato e colpito da un siluro lanciato da distanza ravvicinata dall’U-156 comandato dal capitano Werner Hartenstein. Il colpo penetrato nella stiva e facendo strage tra i soldati italiani prigionieri lì ammassati, causò subito lo sbandamento della nave sul lato dritto che poi cominciò rapidamente anche ad appopparsi. Nel mentre a bordo si organizzavano i primi soccorsi l’U-Boot, dopo essersi riposizionato, lanciò un secondo siluro infierendo alla nave e a chi ancora era a bordo il colpo di grazia.

Nella drammaticità della situazione, tanti dei soldati italiani superstiti si ritrovarono intrappolati nelle stive della nave anche perché, come raccontarono poi i pochi naufraghi che si salvarono da quella carneficina, queste vennero chiuse dalle guardie polacche con l’intento di impedire ai prigionieri di poter raggiungere le scialuppe di salvataggio su cui venne dato ordine di fare imbarcare con priorità prima le donne, poi i bambini e successivamente i soldati inglesi trasportati.

Alle 21:11 il Laconia affondò di poppa trascinando con se i tantissimi italiani che ancora si trovavano prigionieri nel suo interno.

I primi aiuti ai naufraghi arrivarono proprio dall’U-156, che riemergendo dopo l’attacco e avvicinandosi ai sopravvissuti alla ricerca dei militari inglesi da fare prigionieri, si accorse della presenza dei soldati italiani. Fu così che l’equipaggio del sommergibile lanciò il messaggio ai comandi militari tedeschi e a BETASOM, la base sottomarina della Regia Marina a Bordeaux. In breve sia da parte tedesca che da parte italiana vennero ordinate le operazioni di soccorso a tutte le unità che incrociavano in zona, anche a quelle inglesi le quali però ignorarono il messaggio per paura di essere intercettate e attaccate a loro volta.

Il Laconia inclinato su un fianco e appoppato fotografato dall’U-156. Fonte fotografica web
Una parte dei superstiti del Laconia sui sommergibili tedeschi U-156, in prima impressione, e U-507 in secondo piano. Fonte fotografica web

Raffaele Machiné, tra i pochi fortunati italiani superstiti riusciti ad uscire indenni dalla trappola delle stive, si ritrovò alla deriva in pieno oceano atlantico aggrappato ad una paratia di legno che funse da zattera per lui e per altri naufraghi. Ma l’incubo non era ancora finito. Durante quei giorni i sopravvissuti in balia delle onde che non riuscirono a salire sulle scialuppe, in attesa dei soccorsi dovettero difendersi anche dai ricorrenti assalti degli squali.

Una testimonianza italiana raccolta dal comandante dell’U-156 raccontò che gli inglesi, dopo essere stati silurati, chiusero le stive dove si trovavano i prigionieri e che respinsero con le armi quelli che tentavano di raggiungere le lance di salvataggio.

Comunicazione del Viceprefetto di Napoli dr. G. Sannini al Podestà di Torre Annunziata inviata in data 10 ottobre 1942 con la quale si mette al corrente dello status di “Prigioniero di Guerra” dell’Artigliere Raffaele Machiné

Il 15 settembre, tre giorni dopo l’affondamento del Laconia, arrivarono sul luogo dell’attacco ulteriori due U-Boot, l’U-506 e U-507 che riuscirono a mettere in salvo 285 naufraghi tra cui anche degli inglesi e polacchi, e a rimorchiare 7 scialuppe con ulteriori 330 superstiti. Nello stesso tempo, mentre si procedeva con le operazioni di soccorso, all’orizzonte nel cielo apparve ai soccorritori un B-24 Liberator statunitense. A nulla valsero i tentativi di avvisare l’aereo di quanto stesse avvenendo e delle procedure di salvataggio in atto, tentativi che vennero fatti anche con una grossa bandiera bianca segnata da una croce rossa.

Alle 12:32, dopo aver effettuato un primo passaggio di ricognizione, il bombardiere americano, sorvolato nuovamente il luogo dell’affondamento del Laconia dove per altro era evidente la scena della tragedia con le centinaia di corpi in mare gran parte di cui cadaveri, sganciò cinque ordigni che caddero a poche centinaia di metri dall’U-156 causandone un’avaria all’accumulatore e al periscopio. A questo punto, visto l’estremo pericolo in cui incorreva il sommergibile, il comandante ordinò di tagliare le cime che tenevano a rimorchio quattro scialuppe di salvataggio colme di naufraghi.

La mattina del 16 riuscì ad intervenire sul luogo anche il sottomarino italiano Cappellini comandato dal tenente di vascello Marco Revedin, che, incrociando alcuni canotti con a bordo personale inglese, donne e bambini, provvide a rifornirle di coperte, acqua e viveri. Alla fine l’unità italiana riuscì ad imbarcare 49 italiani feriti e stremati che consegnò la mattina del giorno 18 ad una delle unità navali francesi partite in soccorso dei naufraghi del Laconia da Dakar il giorno 15 e che avevano già raccolto sia dagli U-Boot tedeschi che dalle scialuppe alla deriva oltre 1000 altri naufraghi (più di 700 inglesi, 373 italiani e 72 polacchi), sbarcarti poi a Casablanca e a Dakar il 27 settembre.

Invece un altro centinaio di naufraghi che si erano messi in salvo su due scialuppe raggiunsero la Costa d’Avorio dopo diverse settimane di mare. Di questi solo 6 sopravvissero alla traversata.

Alla fine il disastro del Laconia contò tra i 1700 e i 1800 morti. Antonino Trizzino che nel suo libro2 cita fonti ufficiali riferisce di 1350 morti italiani su 1800 e di 11 inglesi su 811. Altre fonti (polacche) indicano un totale 1849 morti, di cui 31 polacchi su 103 imbarcati.

Dei 1800 prigionieri italiani imbarcati in Egitto non se ne salvarono nemmeno un terzo.

Raffaele Machiné sopravvissuto, fu uno dei pochi testimoni di un episodio di guerra rimasto per anni oggetto di dibattito e di accuse tra le parti belligeranti.

Raffaele ritornato in patria dopo il periodo di prigionia, giunto a Torre Annunziata si recò poi nel Varesotto per ritrovare la sua fidanzata Agnese, dove poi si stabilirà definitivamente, sposandosi e vivendo la sua vita. Tuttavia tenendo vive le radici, non ha mai perso occasione per ritornare nei suoi luoghi natii e a Torre Annunziata insieme ad Agnese e ai suoi figli.

Raffaele, Agnese col piccolo Emilio in spiaggia durante un’estate degli anni ’50 a Torre Annunziata

Col cuore ringrazio Emilio Machiné, figlio di Raffaele ed Agnese Farina, per l’attenzione dimostratami in corso d’opera e le fotografie concessemi per corredare questo scritto.

Fonti:

Archivio CSS “Nicola d’Alagno” 

Archivio Storico Uff. Leva di Torre Annunziata

Léonce Peillard, La Battaglia dell’Atlantico, Mondadori, 1992

Antonino Trizzino, Sopra di noi l’oceano, Longanesi & Co., 1962

Sitografia:

it.wikipedia.org/wiki/Prima_battaglia_di_El_Alamein

it.wikipedia.org/wiki/132ª_Divisione_corazzata_“Ariete”

it.wikipedia.org/wiki/133ª_Divisione_corazzata_“Littorio”

it.wikipedia.org/wiki/Affondamento_del_Laconia

https://pastorevito.it

https://ilmarenelcuore.it/


[1] Geneifa è una località egiziana situata a circa 200 metri a Nord del Canale di Suez. Qui dove venne allestito dagli inglesi il campo n° 306 venivano riuniti i militari catturati sul fronte libico-egiziano e nelle acque del Mediterraneo e Mar Rosso. Da parte italiana erano per lo più soldati combattenti del Regio Esercito impegnati dal 1940 al 1943 nella Campagna italiana del Nord Africa. Il Campo n°306 fungeva per la maggiore come punto di smistamento e transito per altri campi gestiti dagli anglosassoni situati in Inghilterra, India, Sudan, Kenya e Sudafrica.

[2] A. Trizzino, Sopra di noi l’oceano, Longanesi & Co, 1962